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Lictoria - 1933
AUTHOR
THEMES/GENRES
Lictoria
Littoria
1
Magna fuit quondam, proles invicta Philippi,
2
Vis tua quae Thebas effera stravit humi;
3
Fumantesque super deduxit aratra ruinas,
4
Aedibus intactis, Pindare docte, tuis.
5
Illius at robur maius qui construat urbes,
6
Par Dîs qui nobis munera grata ferunt;
7
Seu rutilis Titan radiis perfundat in orbe
8
Vitam, seu fruges pomaque terra vehat.
9
Natura, alma parens hominum qui limina sternat,
10
Viribus infestis assimilabo tuis.
11
Cum furit ignis enim cineris fit lucus acervus;
12
Cum furiunt undae vae tibi, parva ratis.
13
Hic fuit atra palus multos dominata per annos
14
Quo tu bellatrix iura, Camilla, dabas.
15
Diruit en Consul Volscorum Plautius urbes;
16
Ultio Volscorum putrida stagna fuit.
17
Serpsit inutilis alga augustae ad moenia ad Romae,
18
Debilitans vires, alme Quirine, tuas.
19
Sanguinis esuriens humanos vulnerat artus
20
Parvulus ecce culex, intumuitque lien.
21
Robora franguntur, praedam velut hostis opimam
22
Qui fecit, canit et semina iactat aquis.
23
Agmina non fudit Romanorum Attila saevus,
24
Plurima regna suá sub ditione tenens.
25
Non Alaricus ovans pugnis centumque tropaeis;
26
Destruit imperium parvulus ecce culex!
27
O clarae Volscorum urbes in gurgite mersae
28
Lethaeo, latitant nomina vestra quoque!
29
Vos pecudum laeti simul et convallis amoenae,
30
Heu vestra obtexit oppida putris aqua!
31
Haec fuerint olim, sed nunc quod papa nequivit,
32
Et triplici serto tempora amicta gerit;
33
Quod Casar frustra tentavit Corsus et heros,
34
Dextera perfecit, magne Benite, tua.
35
Tu ductor iuvenum quos nigra subucula cingit,
36
Italiae claudis fortia fata manu.
37
Horrida quam densi complerant undique sentes
38
Silva fuit tellus nostra, modo hortus adest.
39
Sperat Roma iterum totum dominata per orbem,
40
Imperium Fasces quod peperere sibi;
41
Imperium mundi legum probitate verendum,
42
Armorum plusquam militiaeque metu.
43
Tollitur ut spernens Euros Marpesia cautes,
44
Pectore sic nostro fulgurat ista fides!
45
Sed quo, Musa, ruis? lamdudum desine magna
46
Inscite parvis attenuare sonis.
47
Auditur clamorque virûm clangorque tubarum,
48
Tormenta accrescunt bellica laetitiam.
49
Sirenumque melos diffunditur aethera circum,
50
Turris in extremo vertice signa micant.
51
Nascitur urbs nova, cui nomen Lictoria dedunt;
52
Magna Patris magni filia dicta siet.
53
Cetera non sicut vidit lucem oppida, nata
54
Paulatim ex paucis exiguisque casis;
55
Quarum culmen erat congestum cespite vivo,
56
Et paries molli multifidoque luto.
57
A saeclis oriens aurora intexerat auro,
58
Sed numquam titulus venerat urbis eis;
59
Donec quantum lenta inter viburna cupressi,
60
Sinciput extollit principis alta domus,
61
Legesque imponit. Romanae haec urbis origo,
62
Smyrna, Thebarum, Sidonis atque Tyri.
63
Autumnos inter paucos hic, sorte secunda,
64
Non aurae infestae, non erit ulla palus.
65
Sicut arena maris sic crescent rustica tecta;
66
Culta dabit flores pomaque terra diu.
67
Dux, age, ab arbitro stridentes accipe claves
68
Pagi, cuius ades conditor atque pater.
69
Ad lapidem nigram, populo spectante, lagenam
70
Frangito; pinguis ager spumea vina bibat.
71
En parum ab Urbe procul regio nova, parta labore;
72
Haec, haec sunt cordi praelia grata meo.
73
Non ter epol campi flavis condentur aristis,
74
Oppidaque exsurgent, me auxiliante, duo.
75
“ Uni nomen adest Sabaudia principe ab alto,
76
Et Pontinia sic altera nomen habet.
77
Simbolon hac turris; virtus est Fascibus alma;
78
Hic ius hic, cives, invenietis opem.
79
Vix ea fatus eris tradetur pignus amoris
80
Confectum ex auro grande numisma tibi.
81
Effigiesque tui dumtaxat cernitur ante,
82
Et retro pagi stemmata sculpta manent.
83
Caruleo in campo Fasces cum cuspide utraque
84
Ex parte et merges, cassida complet opus.
85
Omnes applaudent manibus hymnisque canoris;
86
Crispa susurrabunt flamine signa noti!
Grand’era la tua possa, o prole fatal di Filippo,
Che un giorno adeguasti Tebe gloriosa al suolo;
E sovra le fumanti ruine l’aratro spingesti,
Intatti sol lasciando di Pindaro i bei lari.
Ma più di laudi è degno quei ch’erge cittadi e castelli,
Pari al buon Dio che molti doni largisce a noi;
O che diffonda Febo germi di vita co' rai,
O che la terra in copia frutti produca e fiori.
Ma chi degli umani i nidi soavi disperde,
Di natura alle cieche forze agguagliato sia.
Quando imperversa il fuoco, tutto cenere il bosco diventa;
Quando imperversan l’onde, il pio nocchiero trema.
Quì dove tu fra l’armi ergevi, o Camilla, lo scettro,
Nel volgere de’ tempi stagnaron i paduli.
De’ Volsci le cittadi il console Plauzio distrusse,
Ma gli acquitrin vendetta aspra de' Volsci fêro.
Serpeggiarono l’alghe sino alle porte di Roma,
Ed annientâr le schiere, almo Quirino, tue.
Avido d’uman sangue quando l’ago il culice infigge,
Si tumefá lo splene, ed il vigor vien meno.
Allora qual nemico di spoglie onusto fa festa,
Corre alle nozze e germi in riva all’acque pone.
Non tarpó il volo audace dell’ augello di Giove il feroce
Attila che calcava su molte genti il piede.
E non il re de' Goti che vinse cento battaglie;
I veliti sconfisse agili l’anofele.
O inclite un giorno città de’ Volsci, la sorte
V'immerse nell'oblio, togliendovi anche il nome
O amanti del lanoso gregge e de’ campi feraci,
Ahi le capanne vostre copri la morta gora!
Era ciò vero un tempo, ma quello che far non fu dato
A Pio benchè adorno della tiara il crine,
Quel che tentaro invano Cesare e il Corsico eroe.
Alla sua mèta addusse tua destra, o Mussolini.
Tu duce de’ giovani della nera camicia esultanti,
Nella gagliarda mano chiudi d’Italia i fati.
Parea la patria nostra qual selva infestata da spine;
Unite ora le menti è qual giardino in fiore.
Spera di nuovo Roma che dominò terre e mari,
Da te l’impero che i fasci un di le diéro.
Impèr del mondo imposto più dal consenso de' cuori
Che non dalla forza dell’armi e de’ cannoni.
Come sprezzando gli Euri s’erge il gran padre Appennino,
Cosi nel nostro petto sfolgora questa fede!
Ma dove corri, o Musa? Lascia con umili versi
Di rendere piccine cose che sono grandi.
S’odon festose grida e squilli sonori di trombe,
Accresce l’esultanza il rombo de’ cannoni.
Effondesi dintorno il sibilo delle sirene,
In cima all’alta torre splendono le bandiere.
E nata Littoria, nome diletto a' regnanti;
Ditela figlia grande, perchè pur grande è il padre.
Non vide a poco a poco la luce divina del giorno
Come le sue sorelle che surser da’ tugúri,
Il cui comignol era di verdi cespugli contesto,
E le pareti scialbe di vètrici e di creta.
Da secoli nascendo l’aurora d’ôr le vestiva,
Ma non prendevan mai titolo di cittade.
Infine a guisa d’alto cipresso tra i lenti viburni,
S’innalzò l’acropoli sulle capanne umìli,
E leggi impose. Questa l’origin di Roma la grande,
Di Smirne la leggiadra, della opulenta Tiro.
Non cinque volte autunno ornerà di pampini i colli,
E l’aere infetto e l’acque triste ricordo fia.
Come del mar l’arena così cresceranno le ville
La terra non più incolta produrrà frutti e fiori.
Dal Podestà del loco prendi, o Duce, le chiavi sonanti;
Tu di Littoria il primo gran fondatore sei.
Infranta sotto il guardo di tutti le nera bottiglia,
Il liquido spumante fertile zolla beva.
"Ecco provincia nova senz’armi redenta, non lungi
Da’ sette colli; sono queste le guerre mie.
I campi non tre volte coperti di spiche saranno,
E d’altre due cittadi mi chiameranno padre.
L’una Sabaudia dalla casa regnante fia detta,
E tu, Pontinia, avrai dal glauco mare il nome.
Simbolo è questa torre dell’alta potenza de' Fasci;
Quì, cittadini, avrete giustizia e protezione.
E dette queste cose non picciol pegno d’amore
Una medaglia d’oro grato a te dono fia.
In sul diritto impresso sta il tuo volto severo e leggiadro,
E sul rovescio inciso della città lo stemma.
Un Fascio in campo azzurro con due baionette innestate,
Un elmo ed un covone. — Tutti faranno plauso
Con suon di mani e canti di “Giovinezza„ e d’altr'inni;
Increspato all'aure brillerà il Tricolore!
Che un giorno adeguasti Tebe gloriosa al suolo;
E sovra le fumanti ruine l’aratro spingesti,
Intatti sol lasciando di Pindaro i bei lari.
Ma più di laudi è degno quei ch’erge cittadi e castelli,
Pari al buon Dio che molti doni largisce a noi;
O che diffonda Febo germi di vita co' rai,
O che la terra in copia frutti produca e fiori.
Ma chi degli umani i nidi soavi disperde,
Di natura alle cieche forze agguagliato sia.
Quando imperversa il fuoco, tutto cenere il bosco diventa;
Quando imperversan l’onde, il pio nocchiero trema.
Quì dove tu fra l’armi ergevi, o Camilla, lo scettro,
Nel volgere de’ tempi stagnaron i paduli.
De’ Volsci le cittadi il console Plauzio distrusse,
Ma gli acquitrin vendetta aspra de' Volsci fêro.
Serpeggiarono l’alghe sino alle porte di Roma,
Ed annientâr le schiere, almo Quirino, tue.
Avido d’uman sangue quando l’ago il culice infigge,
Si tumefá lo splene, ed il vigor vien meno.
Allora qual nemico di spoglie onusto fa festa,
Corre alle nozze e germi in riva all’acque pone.
Non tarpó il volo audace dell’ augello di Giove il feroce
Attila che calcava su molte genti il piede.
E non il re de' Goti che vinse cento battaglie;
I veliti sconfisse agili l’anofele.
O inclite un giorno città de’ Volsci, la sorte
V'immerse nell'oblio, togliendovi anche il nome
O amanti del lanoso gregge e de’ campi feraci,
Ahi le capanne vostre copri la morta gora!
Era ciò vero un tempo, ma quello che far non fu dato
A Pio benchè adorno della tiara il crine,
Quel che tentaro invano Cesare e il Corsico eroe.
Alla sua mèta addusse tua destra, o Mussolini.
Tu duce de’ giovani della nera camicia esultanti,
Nella gagliarda mano chiudi d’Italia i fati.
Parea la patria nostra qual selva infestata da spine;
Unite ora le menti è qual giardino in fiore.
Spera di nuovo Roma che dominò terre e mari,
Da te l’impero che i fasci un di le diéro.
Impèr del mondo imposto più dal consenso de' cuori
Che non dalla forza dell’armi e de’ cannoni.
Come sprezzando gli Euri s’erge il gran padre Appennino,
Cosi nel nostro petto sfolgora questa fede!
Ma dove corri, o Musa? Lascia con umili versi
Di rendere piccine cose che sono grandi.
S’odon festose grida e squilli sonori di trombe,
Accresce l’esultanza il rombo de’ cannoni.
Effondesi dintorno il sibilo delle sirene,
In cima all’alta torre splendono le bandiere.
E nata Littoria, nome diletto a' regnanti;
Ditela figlia grande, perchè pur grande è il padre.
Non vide a poco a poco la luce divina del giorno
Come le sue sorelle che surser da’ tugúri,
Il cui comignol era di verdi cespugli contesto,
E le pareti scialbe di vètrici e di creta.
Da secoli nascendo l’aurora d’ôr le vestiva,
Ma non prendevan mai titolo di cittade.
Infine a guisa d’alto cipresso tra i lenti viburni,
S’innalzò l’acropoli sulle capanne umìli,
E leggi impose. Questa l’origin di Roma la grande,
Di Smirne la leggiadra, della opulenta Tiro.
Non cinque volte autunno ornerà di pampini i colli,
E l’aere infetto e l’acque triste ricordo fia.
Come del mar l’arena così cresceranno le ville
La terra non più incolta produrrà frutti e fiori.
Dal Podestà del loco prendi, o Duce, le chiavi sonanti;
Tu di Littoria il primo gran fondatore sei.
Infranta sotto il guardo di tutti le nera bottiglia,
Il liquido spumante fertile zolla beva.
"Ecco provincia nova senz’armi redenta, non lungi
Da’ sette colli; sono queste le guerre mie.
I campi non tre volte coperti di spiche saranno,
E d’altre due cittadi mi chiameranno padre.
L’una Sabaudia dalla casa regnante fia detta,
E tu, Pontinia, avrai dal glauco mare il nome.
Simbolo è questa torre dell’alta potenza de' Fasci;
Quì, cittadini, avrete giustizia e protezione.
E dette queste cose non picciol pegno d’amore
Una medaglia d’oro grato a te dono fia.
In sul diritto impresso sta il tuo volto severo e leggiadro,
E sul rovescio inciso della città lo stemma.
Un Fascio in campo azzurro con due baionette innestate,
Un elmo ed un covone. — Tutti faranno plauso
Con suon di mani e canti di “Giovinezza„ e d’altr'inni;
Increspato all'aure brillerà il Tricolore!