Augustalia - 1937
Augustalia is an epic poem of 877 dactylic hexameters
dating to 1937 and composed to honour Augustus’s 2000th birthday
(the so-called bimillenario augusteo). This event received impetus
from the foundation of the Fascist empire in 1936 and represents the regime’s
most ambitious attempt to identify itself with the Roman Empire (see Kallis
2011). In 1937, Augustalia was awarded a prize by the Royal
Academy of Italy, a cultural institution founded by the regime (in 1929) and
suppressed after its fall (in 1944). The poem is preceded by an epigram
dedicated to Mussolini, whom Trazzi represents as the restorer of Augustus’s
empire and morality. Augustalia is divided into two books (of
450 and 427 lines respectively), representing the vicissitudes of the Gens
Iulia and establish a relationship between Augustus’s and Mussolini’s
Rome (see Tacoma and De Vries, 2014: 74-77).
The first book (Pars prima) opens with an evocation
of the Mausoleum of Augustus (vv. 1-15, 49-56) and the emperor’s funeral
ceremony (vv. 16-48). This is followed by a description of the Ara Pacis and
its decay after Augustus (vv. 57-139): Trazzi specifically praises Mussolini’s
role in restoring the monument to its ancient glory (vv. 140-149). After an
appeal to the Muse of history (vv. 150-162), the focus moves to the history of
Rome (vv. 163-450), from its early expansion (vv. 176-192) to the victory of
Octavian’s (Augustus’s) admiral Agrippa over Pompey’s fleet in 36 BCE (vv.
439-450). The poet emphasises the sequence of civil wars and revolts of the
early first century BCE (vv. 193-216), which he compares to the situation in
Italy immediately after the First World War. In these lines, Trazzi draws a
parallel between the establishment of the Fascist regime and the arrival of
Julius Caesar (vv. 217-288).
The second book (Pars altera) opens with a
personification of Troy appearing to Augustus in a dream and urging him to
fight Antony and concentrate political power in his own hands (vv. 1-31).
Trazzzi’s account of the Battle of Actium in 31 BCE (vv. 32-81) precedes his
enumeration of conquests that made Augustus the chief of a world-empire (vv.
82-197). Trazzi represents the period of peace following these conquests (the
so-called Pax Augustea) as the precondition of and preparation for
the arrival and triumph of Christianity in the Roman Empire (vv. 198-224). The
poet then follows some of the vicissitudes of Augustan Rome until the emperor’s
death (vv. 225-336), including the death of Marcus Claudius Marcellus (23 BC)
and the defeat of Publius Quintilius Varo’s legions in the Teutoburg Forest (9
BC). In the last section of the poem (vv. 337-427), Trazzi mentions the decline
of Rome’s power after Augustus and finally exalts Mussolini as the restorer of
Rome’s glory and empire.
Bibliography
Latin texts
Trazzi, Anacleto. 1930. Vergilius redux seu de vita recentiore.
Asola: Tipographia Scalini et Carrara.
———. 1933. Ruris facies vespere. Amsterdam: Academia Regia
disciplinarum Nederlandica.
———. 1936. Carmina. Singulis quibusque metris horatianis
respondentia. Adiectis aliis carminibus. Bologna: Nicola Zanichelli.
———. 1937. Augustalia (Poemation a r. Academia italica praemio ornatum) con versione metrica del sac. Giuseppe Ferrari. [Padua]: Typis
Seminarii Patavini Gregoriana.
Secondary sources
Alfonsi, Luigi. 1943. “Un poeta latino moderno.” Vita e
Pensiero 30 (3): 93–94.
Binnebeke, Xavier van.
2020. “Hoeufft’s Legacy: Neo-Latin Poetry in the Archive of the Certamen
Poeticum Hoeufftianum (1923–1943).” In Studies in the Latin Literature and
Epigraphy of Italian Fascism, edited by Han Lamers, Bettina Reitz-Joosse,
and Valerio Sanzotta, 245–325. Supplementa
Humanistica Lovaniensia 46. Leuven: Leuven University Press.
Kallis, Aristotle. 2011. “‘Framing Romanità’: The Celebrations for the
Bimillenario Augusteo and the Augusteo-Ara Pacis Project.” Journal
of Contemporary History 46 (4): 809–31.
Mattellini,
Davide. 2012. Fichi luciferini. Miscellanea di studi. Libro primo. Cologno
Monzese: Lampi di stampa.
De Sutter, Nicholas. 2019. “Through Virgil’s Eyes: The Certamen
Hoeufftianum and the Revival of Figures from Antiquity in the Latin Poetry of
the First World War.” FuturoClassico, no. 5: 45–91.
Vries, Martje de, and Siward Tacoma. 2014. “Stralen als gelijken: de
Augustalia (1937) van Anacleto Trazzi.” Roma Aeterna 2 (1): 72–77.
Ziolkowski, Theodore. 1993. Virgil and the Moderns. Princeton:
Princeton University Press.
Nicolò Bettegazzi
ANACLETUS TRAZZI
AUGUSTALIA
CON VERSIONE METRICA DEL SAC. GUISEPPE FERRARI
[Latin]
ITALORUM DUCI MAGNIFICO
BENITO MUSSOLINI
Quod Romae Imperium Augustus formaverat olim,
Post saecla eversum Tu modo restituis;
Cur igitur, mundo si fulges Alter ab Illo,
Non una iunctos Vos mea Musa canat?
[Italian]
AL DUCE MAGNIFICO D'ITALIABENITO MUSSOLINI
L'Imper che a Roma Augusto aveva formato,
Ma che fu poi da secoli distrutto,
Tu, pur ora, felice hai ricostrutto.
Perchè, dunque, se in Te viene ammirato
Un altro Augusto, ormai la Musa mia
Uniti insiem cantar non vi dovria?
DELLO STESSO AUTORE
VERGILIUS REDUX seu de vita
recentiore - poema in 4 parti - L. 10
(restano ancora pochissimi esemplari).
IL RITORNO DI VIRGILIO -
Versione metrica del predetto per D.G.
Ferrari - L. 6.
CARMINA singulis quibusque metris
Horatianis respondentia - (porta una
Appendice di altri Carmi, tra i quali
il «Ruris Facies vespere» premiato ad
Amsterdam) - Edit. Zanichelli - L. 15.
PUERILIA (con relativa versione
metrica) - L. 3.
VIRGILIO E I SUOI TRADUTTORI
MANTOVANI - Studio storico critico
- L. 5.
In corso di stampa:
EDYLLIUM CAECILIANUM
con relativa versione metrica.
Di prossima pubblicazione:
FORMICAE MAGISTRAE
L. 10.-
E la Flaminia Via che tante in armi
Vide schiere passar, vivente ancora,
Ma dovuto pur egli a l’atra Morte,
Augusto, non davver prole divina,
- Qual la mendace fama il proclamava, -
Qui decretò di dare a la suprema
Quete il suo frale
E del cieco destin vicende alterne!
Quel sì fiorente Campo dei Tarquini
(Ahi quanto da esecrar l’ultima stirpe
Dei Re di Roma che sì odioso resero
A le Romulee genti il venerato
Nome stesso di re), quel Campo ameno
Ch’ampio stendeasi intorno e ch’indi, espulsi
Gli empi Tarquini, si nomò da Marte,
Tra il pianto e gli alti lai del popol tutto,
Tede apprestava un giorno e aromi a l’urna
Funebre di colui che primo s’ebbe
Tutto l’orbe a suoi cenni. Ecco, non lunge
Sorgon ancor gli ingenti e sculti massi
Del superstite avello.
Plorano in flebil metro i Sacerdoti,
“Calate alfin de la gran Madre antica
“Nel misterioso grembo, inclite spoglie
“Del Semidio che fu de l’Urbe vanto,
“E gloria e onor dell’Orbe. Oh! fin che andranno
“Pascendo il liquid’ êtra l’auree stelle.
“Vi seguiran di Roma imperituri
“Auspici e voti. Nè dal cor suo grande
“Cadrà il ricordo pio di quale spirto
“Magnanimo voi foste, ahi! per sì breve
“Spazio, sacrario insigne. Il piè frequente
“Volger saprà devota Essa a quest’ Erma
“Per evocar Enea e il sepolcro d’Ilio
“Dond’ebbe origin la Romulea stirpe,
“E, di Roma splendor, la GIULIA GENTE.
“Quivi con voti e e preci propiziando
“Verrà le Parche, ognor dominatrici
“Dei Fati, che sorviva a la struggente
“Opra del Tempo quest’avello e duri
“Quasi Palladio, che in sua salda mole
“Serva di usbergo e provvida tutela
“A l’Impero inconcusso e a l’Urbe eterna!
“E Te, preclaro Spirito, che albergavi
“In queste spoglie frali, tra il commosso
“Stupor, dal sommo vertice di Olimpo,
“Te ad incontrar già accorsero l’invitto
“Cesare padre e con li Eneidi tutti
“Padre Quirino, e con beato amplesso
“Accollo in mezzo a lor, ben degni onori
“Avrai con essi tra gli Iddii Superni!”.
Fatidic’ urna serti, d’asfodelo
Lilial contesti e pallidi giacinti:
“Fia quest’avel per noi la mistic’Ara,
“ - Sclamavan – che d’aromi e incenso fumi
“Perennemente e, mentre celle e volte
“E i lacunari immensi echeggeranno
“De’ canti rituali, il fuoco sacro
“Continuo crepitando in aurei vasi,
“Dal tuo sepolcro, Augusto, e dalle sculte
“Tue sacre effigi, fugherà l’oblio.
“E, poi che sempre eroici sensi spirano
“L’Urne de’forti a gli animi gagliardi,
“Qui converran nei di futuri gli Itali
“Figli, ed attingeran qui fausti auspici
“Quanti volgono in cor sensi magnanimi;
“E, in ogni grave e dubbia impresa, i posteri
“Sapran di Augusto ai sacri Mani intendere
“Onde ad Ausonia i Fati ognor propizino!”
Avesse pur di Tullio la facondia)
Ritrar saprebbe l’arte e la sublime
Magnificenza e la grandiosa mole
De l’austero sepolcro? Non più il grande
Suo Mausoleo vanti la ricca Caria,
Nè le sue torri Babilonia ostenti,
O le sue mura Ninive, nè voglia
Più decantar la celebre Canopo
Le Piramidi sue. L’immensa mole
D’Augusto, ogni altra mole eccede e vince.
Atta davvero a l’Uomo del cui regno
Nessun mortale mai vide il maggiore.
Giro prodotto e a cui diresti attati
A fondamenta, dai Ciclopi, curvi
Sotto l’ingente peso, quegli enormi
Ardui macigni, risplendea da lunge
Per l’effuso candor del Pario marmo;
E, interni al primo, quattro muri uguali,
A bastevol distanza, saldamente
Tra lor da volte e da speron connessi,
Ma d’inuguale altezza da le basi,
Ivano intorno in sinuosi cerchi:
Da l’esterno, così, l’intera mole
Bene a l’osservator si prospeltava
Insiem formata di scaglion rotondi.
E non già vuoti e ignudi, ma fregiato
Ognun da fronde varie e verdeggianti,
Pure nei dì brumali. Nè lo stesso
Marmo delle pareti intalto e liscio
Punto apparia, poichè quanto la Greca
Arte col genio e con la man produrre
Avea saputo, lo facean palese
Gli intagli da molteplici figure
Ornati che, ben meglio de l’Istoria,
Fedel custode d’ogni umano evento,
Narravan con bell’ordine l’imprese
Tutte che in pace e in guerra il grande Augusto
Vea compiuto in Roma e nell’Impero.
Dal volto procedeano le coorti
Al ritmico clangor di tube e litui;
- Altrove invece un Re barbaro, stretto
Con tre giri di fune a la gorgiera,
Dietro traeva, digrignando i denti,
A l’aurea biga del Trionfo, reso
Al duce vincitor. – Più là, sbollita
L’ira, il Trionfator, fatto clemente,
Coll’uccisione dell’usata porca,
Vedi coi vinti stringere allecanza
Stabil, mercè i lor messi. – E cingon quivi
Di fosse e valli i campi trincerati,
Là di mura gli spalti ovver di fronte
Appressate le scale, ascender vedi
I gagliardi manipli le mura,
O tempestarle con possenti arieti.
- Con qual superbo fasto inoltre, vinta
La Spagna e soggiogati insieme i Galli,
Vien consacrando lì quell’ARA eccelsa
Che DELLA PACE vien chiamala, indizio
Fedel di sua natura e insieme augurio
De la futura pace che tra breve,
A l’apparir di Cristo, ovunque attesa,
Ovunque splenderà d’etera luce.
- Ma con ben altra pompa, di cui niuno
Vide mai a più giusta, celebrando
Le funebri onoranze al buon Virgilio
Con pio rito solenne, Ei qui si vede
Sequir l’Estinto con dimessa fronte
E mesto il ciglio. Oh, quanto chiaro appare
Com’Ei ripensi in core quanto Roma
Debba e quant’Egli stesso al Sommo Vate!
- Ma in alto, a chiuder tutti i fregi, un quadro
Da solo ogn’altro illustra, poi che quivi
Con fronte luminosa il dio Quirino
Cenna ad Augusto un erto regal Tempio
Dal cui somme la Gloria sorridendo
Sembra offrir generosa a chiunque v’entri
Protesa nel suo pugno una corona.
- Queste e molt’altre ancor gesta sublimi,
Via via, nel marmo sculte, fean più insigne
D’ogni altra rarità che fosse in terra
Questo glorioso sepolcral ricetto.
Alta e spaziosa porta che l’accesso
Dava, ma tetro, ai penetrali oscuri,
Dove, nel grande e tacito sacello,
Solitarie posavano le tombe,
Doni di Menfi opima al vincitore,
Ergean l’aeree cime due obelischi.
E grande, immane quasi ancor dal culmine
De l’erta mole, con imperio austero,
Dettasse or leggi a tutto l’Orbe domo,
Una statua di bronzo e fuso argento,
Mirabil opra d’arte, fabbricata
Da mano insigne, via rifolgorando
Parea, con far severo, contemplasse
Prona à suoi piedi l’Urbe e i cittadini
Parimenti ammonisse onde l’Impero
Ch’Egli, con tante cure, avea fondato,
Non lasciasser governar da saggi
I popoli soggetti, andando a gara
D’effondere pel mondo lor possanza.
Affidamento di durar perenne
Negli êvi questa mole con sì intensi
Sforzi construtta poi che tanti indizi
Lo garantian? – E non avrebbe ognuno
Deriso apertamente chiunque osasse
Solo di dubitarne? Oh, la fallace
Nostra prudenza tra gli umani eventi!
Ciò che non fece il sol cocente e il crudo
Orror del verno e il Tempo edace e l’ira
Di Borea e d’Orïon, chi il crederebbe?
Degli uomini la stessa mente insana,
Volgendo in disonor ciò ch’era ad essa
Di gloria e vanto, in breve andar, distrusse!
Ahimè! que’lochi venerandi a tutti
Quali sepolcri, assai volte adibiti
A fatui ed inconsulti usi profani,
Ecco, ora servon di trincea nell’aspre
Lotte civili; ora, caduti in mano
D’altri padron, si cambiano in verzieri,
E più spesso predati da potenti
Ma zotici signori e pietre e calce
Prestano a fabbricar grandi palagi;
O servendo talor da Anfiteatro
Non già di meste lagrime e di grave
Lutto atteggiati allor vedea gli astanti
L’algido Avel, ma giochi fescennini,
Tragici palli e maschere e volanti
Giostre ed igniti razzi, e finalmente,
Senza troppo alterar l’uso a cui pria
Dovea servire, ai nostri dì quel loco
Viene adibito ai musici concerti,
E mentre l’armonie con dolci note
Ricreano gli ebbri spiriti, forse anch’essi
Non visiti dagli astanti, intorno a volo
Errano i Mani e n’àn festevol gioia.
Che i monumenti dell’antica Roma
Imprese a instaurar mirando insieme
A destar de’Quiriti gli alti sensi,
(Duce e guida Colui che nel su forte
Pensier lungimirante già fissava
Di suscitar fra poco’il grande Impero
D’Augusto) a riparar puranco intesa
Il pristino splendor di quest’Avello,
Negli Italici cor la gioia accese,
Nè il plauso ancor mancò dei sommi Esteti
De l’Orbe tutto. Ed ecco, inesorata
La picca demolir le rudi case
Che il Mausoleo stipavan; tutti abbatte,
Essa, gli sconci ingombri; evviva, evviva!
Quanto così per gravità più splende
Or la risorta mole! Nè stupirti
Se più su l’ardua cima non campeggia
Del grande Augusto il simulacro antico;
Chiunque con l’occhio de la mente indaghi
E ascolti col suo spirito penetrante
Fantasmi e voci, in bianca veste avvolta
Vedrà recinta il crin d’intesta quercia,
Lassù da venti secoli seduta,
Vindice de l’Imper, l’austera Clio,
Assertrice del Ver inclita Musa,
E, l’Istorie scorrendo che niun tempo
Mai cancellar potrà, proprio in quest’almo
Giorno, additando vien le più gloriose
E a tutti sacre, memorande gesta.
O popoli, qui dunque, o genti tutte
Qui v’adunate d’ogni parte e udite:
Se comprendere appien or non v’è dato
Quanto la musa vien rïevocando,
Interprete fedel io delle Muse
Vi chiarirò gli arcani suoi giudizi
E d’Ottavian vi apprenderò ogni cosa.
Benigni, quindi, e memori accogliete
E vi fissate in core il Carme mio.
Racquistasse degli Avi ogni diritto,
Che, sopprimendo Romolo, il Senato
Con frode aveva rapito e con violenza,
E che maggior vantaggio anzi n’avesse
Da tale uruspazion. Perciò Quirino,
Che derivato avea direttamente
Da la stirpe d’Ascanio il sangue e il nome,
Memore ognor di Roma sua diletta,
Per man dei Re dapprima, e mercè l’opra
Dei Consoli in appresso, col valore
Del popol suo, il Roman stato, ancora
Di mura assai ristretto e di confini,
Accrebbe ed allargò. E poi che furo
Pareggiati i diritti tra la Plebe
Ed i Patrizi, e fu sancila aline
L’aurea concordia, il rese sì potente
E per terra e per mar, da superare
Le genti tutte.
Il romano poter mercè il valore
De l’animoso milite, i costumi,
Forza dei Regni, decadendo, ahimè!
Tosto minaccian d’apportar ruine.
Poichè l’uso con popoli stranieri
Attossicato avea persin gli onesti,
Come per rio contagio, e quei che innanzi
Di poverella tunica contenti
E d’un umile ostello, ai prenci uguali
Stimavansi dappria perchè distinti
Per virtù rare, col passar degli anni
Fur visti a incettar marmi appo i Numìdi
E dai Seri acquistar seriche lane,
Cercando ovunque d’ammassar ricchezze
Per aggiunger splendore ai pingui deschi
E fornire, ai già sazii, ebbrezze nuove.
Dove trovato avresti allor gli invitti
Fabrizii e i Muri? dove i fier Camilli?
Era stimata allor da tutti un nulla
La Patria, un nulla la pietà, e l’onore,
Ma l’oro sol stimavasi e l’argento;
E tutto si vendea, governo e sorti
Delle Provincie, il dritto e la giustizia
E il poter Senatorio. Oh, ben mertati
Di Giugurta gli oltraggi a Roma inflitti!
Da l’ambizion di impossessarsi tosto
Del supremo poter nell’Urbe, vôlti,
Non col danaro sol ma ancor con l’armi,
L’uno ai danni dell’altro e dell’Impero
A strazio combatteano. Catilina
Raccoglie i malfattor, gli indebitati,
La feccia de la plebe, e in sua perfidia
Si scaglia contro Roma, minacciando
Di ruinar la Patria. Oh, Mario, il forte
Debellator dei Cimbri, e Silla, il fiero
Del Ponto domator, che avean recati
Tanti vantaggi a Roma, perchè tosto
Di strazïarla in parti opposte osâro
E imbrattar le sue vie di civil sangue?
La boria, il fasto, e l’ambizion ravvolte
Avean le menti in tenebre funeste.
E qual ne l’alta notte ogni altra belva
Esce dal suo covile e move in traccia
De l’agognata preda, in simil guisa
Or de la volpe l’insidiosa astuzia
In Roma imperversava, or la ferocia
Del tigre e l’ingordigia insazïata
De la lupa crudele o la violenza
Terribil del leone. Or, perchè mute
Così che pace ai cittadin tremanti
E pavidi arridesse alfin secura,
Era d’uopo che in ciel si appalesasse
Un Astro d’immortal luce radiante.
Ma, ahimè, se non si affretta, andrà bentosto
Ruinando un Imper di sì gran mole.
Inclite Parche, deh, voi fate correre
Più presto gli anni, più veloci i secoli;
Su, su affrettate; sol così, non dubbia
Fia la salvezza del Romano Imperio….
Scempi de l’Europea tremenda Guerra
Eran le sorti misere d’Italia
Poch’anni or son. Poichè, dopo le stragi
E i vasti incendi e i danni e le rapine
Inferti in tante pugne agli Italiani,
Le ingenti spese avean consunte ancora
Del fisco nazional le forze tutte.
Ma, in mezzo alla comun squallente inopia,
Color che s’eran tolti astutamente
Ai rischi ed ai perigli e avean lucrato
Pingui guadagni offrendo a ingente prezzo
Ciò che a la Patria in armi abbisognava
E a gli usi de la guerra, alto ostentando
Improvvise ricchezze e fatuo lusso,
Generâr tosto invidia mista a bile
Per cui lo spirto popolar ne è tutto
Sconvolto. E che? Persin l’umile e invitto
Milite che serbato a sè sperava
Dei rischi superati il guiderdone,
Reduce appena dal conflitto immane,
Scorgendo che i vantaggi de la pace
Solo ai transfuga vili eran concessi
Prima a’suoi lumi stessi a creder stenta,
Ma tosto imprende a fremere e, appellando
Un nome vano la Giustizia, ardente
Alfin di sdegno, e spinto ancor dai loschi
E irosi arruffapopoli, deserta
I campi e l’officine e armato invade
Le piazze e i trivî e gli opifici assalta,
Ed ebbro di rapina, infrange e strugge
Che più? Dischiuse con violenza e furia
Le patrie prigion, ne trae festanti
I malfattor più insigni e lor fornisce
Armi rapite ed ecco apertamente
Ormai si pugna pr le piazze; orrore!
Quante città fur tinte allor di sangue!
Già già il poter caduto era di mano
Ai reggitori de lo Stato e in pugno
Stringeato ormai, l’empia genia ribelle.
Ma Iddio che in suo poter provvido regge
I destini d’Italia, arcana e sacra
Culla insiem de l’Impero e de la Fede,
Un UOMO suscitò, che di superna
Mente, diresti, e ferrea man fornito,
Poi che il governo s’ebbe in man del Regno,
Non sol spense i tumulti e l’ordin tosto
Ristabili, ma rassodò lo Stato,
E, l’abbellì e l’accrebbe, da eccitarne
L’invidia e lo stupor dell’Orbe intero!
Roma dei padri! E il giorno è ormai venuto;
Ecco l’attesa Aurora in ciel rifulge:
Tardi, ma in tempo vendica Quirino
I dritti a lui contesi. Salve, o divo
Cesare, nato da la GIULIA GENTE!
T’avanza, o invitto apportator celeste
Di luce che, il grand’astro prevenendo
Del Sol vicino, in tua virtù sovrana
Le irose fugherai belve nemiche!
E, certo, se or richiedesi una mente
Sagace ed un indomito volere
E salda man che stringer sappia i freni
E regger fermo il perigliante Impero,
Chi, Cesare, di te fia meglio adatto?
E perchè tosto a ognun chiaro apparisse
Da quale eroico sangue eri disceso,
Giovane ancor, tu disfidare osasti
Dell’imperioso Silla le minacce
Allor che t’imponea non giuste azioni.
Munifico pur tu sino a dar fondo
Al censo avito, prestamente aspiri
A cariche e ad onori e, d’essi a pegno,
De l’insaziabil plebe i voti accatti,
E se ben col fulgor de le tue gesta
Susciti contro te l’astiosa invidia
Dei Senator che rodonsi di bile,
Pure tu indulgi a tutto e, generoso
Sempre in cor tuo, perdoni a gl’implacati
Loschi avversari senza vendicarti.
È dunque da stupir se, dopo tanto
Contrastar teco, alfin l’acre livore
Dell’ostile Senato si quetava?
Ecco; non sol ti cede ogni potere,
E la Gloria di Re, pur senza il nome,
Ma ti assegna persin l’onore e il culto
Che suolsi tributar soltanto ai Numi.
Così già Roma a ottemperar si adusa
Al comando d’un solo e un novo inizio
Hanno di qui sorti dei Quiriti.
Che importa se chi proprio nol doveva,
Con rio delitto, a colpi di pugnale,
Truce sicario infame, alfin ti uccide?
Egli col sangue tuo rinsalda il regno
Più stabilmente. Ahi, che facesti, o Bruto?
Così provvedi dunque a la desiata
Libertà dei Quiriti? oh folle! Quanti,
Quanti delitti, ahimè, sotto sì sacro
Nome si compion! Ma che ottieni? Nulla!
Per nulla cangi, o vil, col tuo delitto
Quel corso che le Parche han stabilito
Nel vaticinio antico, chè la GENTE
GIULIA, la Casa dal destin prescelta
Col favore dell’Urbe, o presto o tardi
Del vasto Impero assumerà il governo.
Cadea trafittto Cesare, il nepote
Erede suo, di poi nomato Augusto,
Che Cesare sagace aveva dianzi
Adottato qual figlio, giovinetto
Stava accudendo lunge, in dotta e illustre
Ellenica città agli ardui studi
De l’armi e del saper. Ma allor che il figlio
Giovinetto partì, Cesare un mesto
Sguardo gli volse ed abbracciandol stretto,
Come non oltre a riveder l’avesse:
“Or va, gli avea soggiunto, o mio diletto
“Figlio, ma pur lontan ricorda, ed abbi
“Innanzi agli occhi della mente, Roma
“E il sacro Campidoglio. Quale degno
“Figliol di Marte, apprendi a trattar l’armi
“E ad indurar le membra a le fatiche
“Nella rapida marcia; ma più ancora
“A formar giuste leggi salutari
“Ai popoli soggetti, nè i Quiriti
“Debban giammai per le pianger delusi!”.
Se i Numi avrai benevoli e propizi,
I voleri del padre adempirai
Non sol, ma comerai oltre ogni attesa
Fedele i voli suoi, poichè l’Impero
Che a Roma e a Te, felice e ben sorretto
Da l’ingegno e da l’armi, Ei procacciava,
Tu l’amplierai, recando a molte genti
E ad altri lidi i provvidi vantaggi
De l’aurea Civiltà, col dono insieme
Del sacro Roman Dritto, che negl'êvi
Rifulgerà sublime e imperituro.
Oh, sotto il tuo governo assai beata
Roma, che tu di marmo rifarai
Ornandola di Templi inver superbi
E di Fori splendenti d’arte insigne!
Ma beata ancor più per miglior sorte
Quando l’aricchirai di sante leggi
E saggi ordinamenti, che i diritti
Rinsaldin del coniugio onde la prole
Accresciuta aggrandisca orgnor la possa
Dell’Urbe, si che il sol che gira inforno
Alla terra ogni dì, giammai nel mondo
Scorger possa prodigio più solenne.
Allo siccome l’aquila che anela
Sempre alla luce intensa, prevenendo
Lo stellante mattin, l’Alpe trasvola
E rapida veleggia incontro al sole
Non nato e ascoso ancor nell’onde Eöe,
Finchè risplenda nuovamente in cielo,
Così tu pure, Ottavio, esulta; il giorno
Che gli êvi già predisser le Sibille
Ormai non è lontan; giorno aspettato
Nel quale un Astro ascan subitamente,
Dalle regioni orïental sorgendo,
Quest’Orbe inonderà di eterei raggi.
Tu, benchè ignaro, andrai felice incontro
A questa luce, allor che, ormai rinchiuso
L’infausto Tempio del bifronte Giano,
Per tuo dono l’Imper soggetto a Roma,
Godrà perenne imperturbabil pace.
Morte del Duce, ad Ottavian suade
Di guidar contro Roma le fedeli
Magnanime coorti e assecurare
Con l’armi i dritti suoi validamente.
Egli con senno, invece, superiore
A la sua verde età, con poca scorta
Di militi e d’amici, varca il mare
E, giunto a Roma, reclamando audace
Gli aver paterni, tosto de la plebe
Il favor si concilia e dei patrizi.
Ma a che indugiar narrando parte a parte
Le singole sue gesta e i tanti fatti,
Se toccan già i confini de la terra
E abbraccian gli Evi? A Modena da pria
Vinti di Marte i rischi, e in Roma accolto
Strenuo trionfator, gli ambiti ottenne,
Quadrilustre e non più, Littorii Fasci!
Ma chi il potrà seguir nel lungo corso
Dei riportati onori, e de’suoi fasti
Misurar la grandezza? A chi fia dato
Ritrar sue grandi imprese se pur sempre
Ne restan da narrare di maggiori?
Come lampo che non rapido guizzo
Di luce, fenda subitano l’etra,
Abbarbaglia la vista e il suo fragore
Per la volta del ciel manda e rimanda,
E spesso effonde piogge salutari,
Ma pur, scagliando fulmini tal fiata,
Percote intorno quanto incontra, e fiede
Anco i sublimi vertici montani:
Non altrimenti questo giovin d’alto
Valor bentosto, in pace e in guerra, assurto
Con mente acuta e man gagliarda ai sommi
Fastigi de la gloria, con prudente
Saggezza, ora largisce onori e premi
Ai fidi amici suoi benemerenti
Per cattivarsi i cuori in simil guisa
Ne l’Urbe e fuori, ed or disperde fiero
I tumidi rivali ovunque a prova
Incalzin minacciosi, e dai perigli,
Qualor sovrastin, libera lo Stato.
Di vendicare il padre. Orsù ti guarda,
Guardati, o Bruto! Fuggi e lascia tosto
La fatale Filippi. Questo ardito
Giovane è il Genio che ogni notte irato
Sotto la tenda scorgi, e che ti vieta,
Perfido, il sonno! È quegli che sì spesso
Diceati minaccioso che t’avrebbe
Quivi aspettato un dì. Va, mostro, fuggi!
T’attende ormai l’inevitabil pena.
A che persisti in ritentar le sorti
D’incerta pugna? Eccoti ormai costretto
A darti morte da te stesso. Indarno
Cerchi di opporti ai fati! O stolto, cessa
Alfin di vilipender la Virtude
Che, misero, tu ignori (oh quanto, quanto
Degenere tu sei da quel famoso
Tuo sì grand’avo) chè non vuoto nome,
Nè il nulla è la Virtù, come tu affermi,
Ma di’ piuttosto che soltando il nome
Della Virtù ti è noto.
Più fieramente e presto gli uccisori
Del padre, il giovin Console avveduto
Fingea d’aver scordato insidie e torti
D’Antonio stesso e ancor non esitava
Di stingere con lui ferma alleanza,
Fra tre membri spartendo il vasto Impero,
Ma qual iattura ahimè, venia seguace
A questa lega iniqua! Ahi, quanti illustri
E inermi cittadin l’esoso Antonio
Proscrive ed allontana per ingorda
Turpe avarizia, od ebbro di vendetta
E di sangue assetato a sè li immola
Con stragi immani! E chi non fia che pianga,
O Cicerone, spento con te il lume
De l’eloquenza e del Senato il vanto
E l’ultima salvezza dei Romani?
Non crollasse sì tosto, il giovin Duce
(In cui d’Augusto il sol non s’era schiuso
Del tutto ancora, e d’altra parte il sole
Anche in pieno fulgor ha le sue macchie!)
Pur tra sè tali eccessi riprovando,
A stento e con orror li tollerava,
Ben certo che il collega alfin travolto
Da tanti error, precipite cadrebbe
Come di Roma esizio; e la fortuna
Mostrò ben presto ch’egli ben vedeva!
Ecco difatti ad incontrarlo a Tarso,
Origine fatal di sua ruina,
E laccio d’ogni stolido, arrivare
Con pompa degna di stupor, l’infame
Regina dell’Egitto Cleopatra.
Quid vero Antonius? Illam
Quella città, su le cui rive floride
Redolenti incensier spessi fumavano
E già remeva ansiosa turba innumere,
Su peregrin naviglio che mai simile
Onde solcato avea, vaga qual Venere
Novella, ecco venir la trista femmina
Allettatrice. L’unca poppa d’aurei
Fregi era ornata e di figure egizie;
Rosse sartìe reggean le vele seriche
Che belle risplendean di tirie porpore,
Sembrando quasi mollemente tingere
Gli stessi flutti d’infocato minio.
E menire, ornate a guisa di Nereidi
Ninfe, di cetre e sistri Isiaci al sonito,
Fanciulle Egizie a tempo maneggiavano,
Da un margine e dall’altro, remi fulgidi
Del vivido biancor d’argento nitido,
La procace Regina, ignuda gli omeri
E pur nuda le braccia, sotto un ampio
Azzurro padiglion di stelle rutilo
Mollemente adagiata sopra un aureo
Letto e posata sull’eburneo cubito,
Ebbra coglieva le balsamic’aure
Che vispi fanciulletti, al tutto simili
Agli Amorin con l’ali a tergo e pendulo
Agli omeri il turcasso, vicendevoli
Con flabelli di piuma richiamavano
Della donna regal sul volto roseo.
“Oh, Venere! Ecco Venere! all’intorno
“Sclamavano le plebi stupefatte
“In veder sì mirabil liceta scena:
“Evviva, o tu che vieni a visitare
“Così il novello Bacco! O appien felici
“Le fiere genti Asiatiche, protette
“Da tali Numi!”
Ed or che farà Antonio?
Preso ei bentosto dalle sue lusinghe
E dal formoso aspetto, in alto oblio
Posto il dover, la segue fino al Nilo.
Così colui che riportar dovea
I vessilli di Crasso, dai veloci
Parti poc’anzi tolti, ora coperto.
Di egizie vesti e d’africi costumi,
Solo intento a servire ai tristi amori
D’una turpe bagascia, non disdegna
D’infamare, col suo, di Roma il nome.
Ma non sofferse il popol tali oltraggi
Non tali infamie tollerò il Senato.
Ecco perciò che Ottavio accorto e forte
D’animo e d’armi, in fretta con l’ausilio
Del fido Agrippa, storna appien col vasto
Eccidio Perugino i danni e l’onte
Che, a mezzo della maglie e del fratello,
Antonio, vile, minacciava a l’Urbe.
E che sperar potea più là il perduto?
Una salvezza sol rimane al vinto,
“Chieder mercè e salvezza al vincitore!”
Pace e alleanza e pia conciliatrice
Fu introdotta la suora d’Ottaviano,
La casta Ottavia, a cui portò le tede
Nuziali l’impudico e iniquo Antonio.
Di qui, di qui forse Maron cantava
Dovesse al mondo uscire quel Divino
Fanciullo i cui natali avrebber dato
Un nuovo corso ai secoli e agli eventi.
Ma come ahi! l'aurea speme andò fallita!
Come rapidamente estinte furo
Le fatidiche tede! Poichè il lercio
Fedifrago, violando ogni divino
Ed uman dritto, ad ardere continua
D’insano amor per quella turpe druda,
Non sol, ma, ad arte, di crear si studia
Novi fastidii ovunque al suo rivale,
E nega di concedere, il fellone,
A l’arbitro del mar, Pompeo, quel ch’era
Dappria già pattuito. Allor sospinto
Questi da l’atre Furie, qual pirata
Feroce, vien le navi intercettando
Che a Roma riforniscon grani e biade.
Bramoso di cessar questo flagello
Per sempre e provveder con pronta cura
Del popolo e de l’Urbe a la salvezza,
Tosto Ottavian s’affretta a radunare
Una possente flotta e, al mare unendo
L’acque del Lago Averno e del Lucrino,
(Opra davver regale ed ammiranda
Per tutti gli êvi) un porto, asil securo
E rifugio a le navi, egli apre, e il noma
Da Cesare suo padre. Con l’aita
Poscia d’Agrippa, fieramente e a lungo
Perseguita Pompeo che tien l’impero
Del mare e alfine lo sconfigge, Roma
E il popol liberando dal terrore,
Ai numerosi merti un merto nuovo,
E più fulgido ancor, così aggiungendo
Che la sua gloria all’alto cielo estolle.
La sommità dei cieli, il sol per l’orbe
In tutto il suo splendor rifulger deve:
Cose maggiori omai ci chiaman; Noi
Dunque, cantiam queste maggiori cose.
Occupa il sonno i corpi ed alla mente
Fornisce i sogni più veraci, a Ottavio
Che ad alleviar si stava l’egre membra
Dalle incalzanti cure, si presenta
Una figura celestial: “Son qui -
“Dice – nè déi meravigliarti, Ottavio;
“Son qui per ordin proprio degli Dei.
“Forse a te sono ignota? Eppur congiunta
“Sono teco di sangue. La famosa
“ILIA son io, di Romolo l’antica
“Inclita madre, e qui dal cielo io venni
“Con l’ansio intendimento di mostrarti
“Quale grandezza in avvenir ti attenda,
“Se avrai prudenza, e insiem quali perigli
“D’ogni intorno ti stian. Poichè n’è giunto
“In cui la GIULIA GENTE alfin vittrice,
“Riprendendo i suoi dritti, avrà inconteso
“Il sovrano poter sol essa in Roma.
“Ma ad impedir che questo avvenga, l’empia
“Regina Cleopatra, da diuturna
“Furente invidia accesa, non risparmia
“Intrigo alcun per irretir proterva
“Te pur nei lacci infami di lussuria
“Che incauto già subì l’emulo Antonio:
“Guai a te, guai a Roma, se attivarsi
“Dovesser quelle frodi che l’Egizia
“Circe vien preparando. Ahi, tutto crolla! -
Direbbero le genti lagrimando -
“Invano dunque il mondo avea sperato
“Che Ottavio sol si avrebbe nelle mani
“Tutto il poter perchè così più saldo
“Regger potesse il vasto Impero e ogni anno
“I suoi confini dilatasse? Invano
“Cesare ancor avrebbe preparato
“Tanto avvenire al Figlio? E vedrem dunque
“Dal Campidoglio dettar leggi e norme
“Una superba intrusa a cui s’addice
“Soltanto il turpe, ignobile bordello?
“Con arditezza sgombra tosto adunque,
“Dall’Orbe tu quest’ansia tormentosa;
“All’opra, orsù, t’affretta, cogli il tempo
A tutto osar propizio!” Scosso il duce
Da questi accenti destasi dal sonno
E concitato ad eseguir s’accinge
Tosto gli urgenti e provvidi comandi.
Riede in Egitto baldanzoso e, gonfio
Di orgoglio il petto, stoltamente ardisce
D’indir nella metropoli egiziana
Un gran trionfo sol concesso in Roma.
Oh sciagurato qual follia ti prese?
Va sciocco; or tu non sai, ma la recente
Vittoria che ti arrise fia cagione
Prima e fatal di tua ruina estrema.
Come potrebbe Roma sofferire
Che una città da lei già vinta e in dono
Ai vinti data, a lei sia preferita?
Che a sì folle insolenza erasi spinta
La meretrice, da nutrir desìo
E ferma speme di regnar bentosto
Tra i sette colli, pur contro i supremi
Decreti di Quirino. Ma per certo
Le Erinni le ispirâr tal rìo pensiero
Acciò la mala femmina corresse
Con maggiore ignominia al precipizio.
O Roma, non temer! Ecco, già presso
Il marin lido d’Azio, a fronte a fronte
E disposte a tentar l’ultima prova
Stan le due flotte: uscirà quindi in breve
Il supremo destin de l’Orbe tutto.
Ma tu non hai da paventar sciagure
O danni, avendo Cesare per duce.
Odi, quant’egli, - sfavillando in volto
Quasi di luce mistica - diritto
Su un’erta poppa, intrepido ricorda
Ai fier classarii che gli fan corona:
“Ora, seguaci miei, se avete il fermo
“Intendimento di salvar l’onore
“Di Roma, convien vincere o morire!
“Noi l’armi non portiam contro un Romano
“Cittadin; nostro intento è di punire
“Un figlio tralignante che, obliata
“La madre, ardisce venderla a un’immonda
“Druda straniera. E noi sopporteremo
“Di servire a quest’empia? Orsù, gagliardi
“Figli di Marte, orsù, contro il nemico
“Di Roma nostra, impavidi correte,
“Colpitelo, struggetelo, procomba
“Di ferro e fuoco avvolto!”
Non vien frapposto; le due flotte s’urtano
E un immenso clamor sale alle stelle.
Ve’ con quale destrezza i lievi schifi
De l’invitto Ottavian si fanno sotto,
Quasi dal soffio boreal sospinti,
Alle navi d’Antonio in lor pesante
Struttura inerti! All’impeto irruente
Ben tosto e di soppiatto, l’orda Egizia
Tenta fuggire, ma l’ultrice Nemesi
La trattien minacciosa e fa convergere
Contr’essa tutte l’armi e l’ignee fiaccole,
Sì che diresti che d’un tratto i lividi
Flutti sconvolti coruscando avvampino.
La Vittoria al contrario sovrastando
Di Cesare alla flotta, esulta e intona
Già il trionfal peana e vuol che tosto
La Fama alata voli annunziatrice
Del grande evento a Roma e l’assecuri
Che l’immane duello è ormai finito!
Poscia: “Invano, soggiunge, invano or fuggi,
“Empia, Cleopatra su le tue carene;
“Invan ti studierai pur d’irretire
“Con tue lusinghe, il vincitore; ormai
“Se tu e lo stolto adultero tuo socio
“Paventate d’ornar l’eburneo carro
“Dell’ odioso rivale trionfante,
“E vi rincresce sostener tant’onta,
“Una sol via vi s’apre: suicidarvi!”
Tremendo il vincitor ecco si volge
Ratto agli Egizii lidi. O Antonio afferra
L’affilato pugnale e tu, superba
Figlia de’Tolomei, ricerca il morso
Dell’aspidi ferali. Han qui lor fine
I vostri sogni di regnare in Roma!
Cose d’Oriente, Ottavio si propone
Di far ritorno al Tebro. E chi potrebbe
Narrar con quale plauso e qual letizia
Il popol tutto e ogni ordin cittadino
Il trionfante vincitor qui accolse?
Oh, ben felici quelli a cui fu dato
Veder sì grandi pompe e a vicino
Il Duce contemplar tra tante feste!
Come fisando un fiume, alle fluenti
Onde, vedresti tener dietro altr’onde
Che le incalzan continue, parimenti
All’ansie turbe allor novelle turbe
E turbe ancor si succedeano, al punto
Da creder non finissero più mai.
Ed ecco dopo i fanti, alteri in volto
E in fiero atteggiamento, dopo i baldi
Cavalleggier recanti insiem commisti,
Vessilli e brandi, ecco apparir l’insigne
Trionfator. Solennemente ritto
Sopra l’eburneo cocchio, trascinato
Da quattro candidissimi destieri,
Come è d’uso, e d’allôr cinte le tempia
Ornato d’ostro il manto, sorridendo
A questi e a quelli, il Campidoglio ascende.
Solo i prigioni stansi afflitti e mesti
Chini il capo e le man legate a tergo;
E alfin, stridenti sotto il peso immane
Dell’ingente bottino i molti carri
Alla plebe sì cari chiudon l’ampio
Foltissimo corteggio. E sì pomposo
Spettacol non compìasi una sol volta
Ma per tre dì continui rinnovassi
Anzi e con più gaiezza e ognor crescente
Entusiastica folla di Quiriti.
Lo strenuo vincitor ch’indi il Senato
Non superasse i desir suoi devoto?
Per questo, attribuendo unicamente
Al suo valor que’doni della pace
Di cui poc’anzi l’Urbe egli arricchiva,
Tosto il Senato impon che venga chiuso
Il temuto di Giano infausto Tempio,
E insiem s’innalzi un vasto, alto delubro
A la FORTUNA REDUCE. Ma quello
Che in alcun tempo a niun fu mai concesso,
Con riti sacri e col favor de l’Urbe
Sancisce che il glorioso Vincitore
Da tutti in avvenir si chiami - AUGUSTO -
Nome davver fatidico dal quale
Pendea il poter supremo e insiem gli arcani
Destini dell’Imper. Qual pregio infatti
Avere ormai potea per i Romani
L’Antica Libertà degenerata
E che sì infausta e lugubre suonava?
Purchè non infuriasser sì frequenti
I civili conflitti, purchè intatti
Vigessero lo Stato e il suo potere;
E il governo dell’Urbe e insiem dell’Orbe
Fosse tenuto con fortezza, e i sacri
Dritti de la Giustizia avesser pregio,
Purchè al popolo infin la pace e il pane
Non venisse a mancar, qual mai divario
V’er al postutto che il poter supremo
Fosse in man del Senato oppur gestito
Da un Principe prudente?
Nè pria nè forse poscia, per prudenza,
Ai mortali rifulse più d’Augusto.
Cosa ammiranda invero! Egli cresciuto
Tra le grandezze a cose grandi aspira,
Ma, più sagace ancor del proprio padre,
Quello a cui mira lo nasconde in core
Profondamente. Omai la sua possanza
È quasi senza limite ingrandita,
Ei però non s’esalta, nè a malvage
Imprese la converge; del vetusto
Imper visibilmente nulla muta;
Di Roma la grandezza, e del Senato
La venerabil maestà, ricolme
Da lui son sempre degli usati onori.
Anzi, perchè non s’abbia chi il sospetti
D’inconsulta ambizion, con risoluta
Volontà, da sembrar quasi divina,
Dopo il terzo trionfo, stimolato
Dal Genio suo, tosto di Roma i colli
Egli abbandona e volgesi con cura
A visitar ogn’angol de l’Impero.
Il crederesti? Quegli che pur sempre
Era sembrato schivo del potere,
Paziente e insiem sicuro in suo presagio
Senza che alcun s’accorga, incontrastato
Tutto in sè solo or lo concentra in pace!
Sproni al suo cuore!) ei segue presso i Galli
E in breve stringe a sè con tanto amore
Quei popoli, che là dove de l’Arari
Le torpid’onde seco porta il Rodano,
Non estian sacragli un Tempio insigne
Al qual presieda e compia sacrifici
Un Sacerdote. E tu, pur or nemico
Truce, o Vercingetorige, pensosa
Ombra invisibil forse eri presente
Ancor tu, ma deposto ogni livore
Avevi certamente, a scorger quanti
Vantaggi Roma avea recato ai Galli
Poco men che selvaggi.
Per visitar gli Iberi, i Pirenei,
Trova le terre, per cui passa, immerse
In difficili prove, poi ch’ardeva
Qua e là nefasta guerra, qual se ancora
Viriato e il fier Sertorio redivivi
Riprese avesser l’armi parricide! -
Ma il prisco ardir di Cesare ognor schivo
D’ogni viltà e paura, radunante
Strenue Legioni ovunque, si die tosto
Ad assalir le ciurme dei ribelli,
Ad incendiar quartieri e accampamenti
E borghi ascosi sin tra gli erti monti,
E a smantellar città, finchè i nemici,
Da sconfitte terribili prostrati,
Chiedon pace, però linta purtroppo
Anco di Roman sangue.
Tornando quindi a Roma Ei porta seco
Nova esultanza e insieme è fatto segno
A immensi onor cui non curar fa mostra
Mentre a più eccelse cose il pensier volge.
Senza sostar perciò nell’Urbe a lungo,
Come poc’anzi si recò solerte
In occidente, Ei volgesi ai lontani
Popoli del Levante. E in suo cammino
Tocca il Trinacrio suol, visita i fidi
Popoli Argivi, accolto ovunque al pari
Non d’uomo e non di un Re, bensì d’un dio.
Indi ver l’Asia avutasi difilato
E l’Assiria varcando, d’ogni parte
Sin da l’estreme plaghe della terra,
Benigno accoglie ambasciator chiedenti
Sacra alleanza e pace. I Garimanti
E gl’Indi, noti appena e sol di nome,
Gli mandan ricchi doni almen qual segno
D’omaggio e d’amistà. Gli stessi Parti
Non mai sconfitti o vinti in nessun scontro,
Con spontaneo voler gli recan tosto
L’acquile pria strappate e che gelosi
Custodiano tuttor siccome pegno
De la desiata pace. E come, invero,
Rifiutarsi di farlo? Era si grande
L’amore in lui per la virtù, sì puro
Il senso di giustizia, e di pietade,
Da cattivarsi lo stupor di tutti!
Quanta grazia e bontà splende nel Duce!
Con qual saggezza ai popoli Ei dispensa
E pene e premi ed apre vie secure
E i commerci diffonde! Con quest’arti
Tanto amor ei raccende verso Roma,
Ne le terre orientali, che per tutto,
Sin da quel punto, Roma incominciava
Ad apparir l’oggetto delle cure
Più certe degli Dei, del tutto degna
Che unicamente a le forre commesso
Del mono inter lo stabile dominio.
E certo, pur vincendo anco una guerra,
Augusto non avria giovato a Roma
Come giovato avea con questa andata.
Pur da Febo ispirato, raccontare
Feste, trionfi e plausi tra cui Roma
Novellamente in giubilo lo accolse
Al suo ritorno? Avresti allor creduto
Che i cittadin non esultasser solo,
Ma impazzisser davver; e indubbiamente
Di giorno in giorno più scorgeasi chiaro,
Che in lui tutto l’Imper si concentrava.
Sin quel Senato che tremar facea
Con un sol cenno per l’addietro il mondo,
Or non altro apparìa che l’ombra inane
D’un nome grande ed obliato.
Se Augusto sparge ovunque il proprio lume
Non fia qual altro Sole ritenuto?
Se detto è dai Roman comunemente
FIGLIO DEL DIVO, perchè mai chiamarlo
Non si dovrebbe DIVO egli medesmo?
Orsù, dunque, i lor canti alzino i Vati
Rallegrandosi appien. E con qual nome
L’epica tromba e la sonante lira
E la tenue zampogna celebrando
Vengono il vincitor, se non col sacro
Nome di DIVO? Nè co’blandi carmi
È soltanto onorato, ma con Templi
Ed are e bronzee statue e simulacri,
Vien proclamato a gara immortal DIVO.
Stolto però s’ei prestò fede a tanto,
Nè men pazzi color che reputâro
D’affermar cosa vera! - Non un Nume
Eri già Tu, ma l’Esser fortunato
Che, pure inconsapevol, preparasti,
Con previo senno, il giusto tempo e l’ora
A l’Unico Dio Vero. Chè non quegli
A cui sol ubbidiscono i mortali,
Ma Quegli a Cui soggette ed obbedienti
Stanno le cose tutte, Egli l’Autore
Si dimostra del Tutto. Oh, chi, morendo,
Polve ed ombra divien non può di certo
Essere Dio; soltanto Quegli è tale
Che, ripresa la carne, a vita riede
Ed in propria virtù risale ai Cieli.
Non però invano, o Augusto, è a te soggetto
L’Orbe, nè invan fu chiusa alfin la porta
De la Guerra, poichè, quando fruire
Di dritti e leggi e ordinamenti uguali
Possan le genti tutte e sceso in terra
Dagli alti cieli, il PRENCE DELLA PACE
Sparger possa sicuro il divin seme
Della sua Nova Legge, oh l’ansie menti
Non forse accoglierebbero gli arcani
Dogmi novelli con ardor più pronto?
Anzi avrà inizio allor per ogni dove
La vera ETÀ DELL’ORO, e fiano sgombre
Dalla lunga caligin le Nazioni,
E di Roma immortal sotto gli auspici
In cheta poseran diuturna pace.
E sì gran beni procurò. Se amica
La sorte in gioventù sempre gli arrise,
Se ognor trattò con gran fortuna i vari
Publici offici, v’ebbe forse uomo
Che ne l’età senile ed in sua casa
Fosse di lui più afflitto da sventure?
Ahimè! Di quali orribili delitti
Vede procacemente Ei deturpata
L’austera Reggia che dall’ombra stessa
Del mal dovrìa guardarsi! Per lavare
Bentosto tai lordure, nè a sè stesso
Venir meno Colui che sì s’adopra
Per frenar dei Quiriti i turpi eccessi
Non esita Eì d’espellere severo
La figlia da insaziabile lussuria
Contaminata e guasta.
Compiangerò, o Nason, che forse immune
Da colpa vera, ma conscio e maestro
D’orgie e d’amor vietai, co’tuoi Carmi
Fatto prima cagion di tanti mali
Alla Reggia Imperial, misero lasci
Le incompiante tue spoglie tra i Cimmerii.
Te invece alma speranza del Casato,
O buon Marcello, chiamerò felice!
Se la morte immatura, infatti, il trono
Rapìati, almeno a te risparmiò l’onta
Di veder de la moglie i tanti obbrobrii.
Nè l’implacabil fato ancor si arresta
D’insozzar tuttavia di macchie infami
L’augusta Casa poichè in essa tosto,
Emula della figlia, e rotta a tutto
Forse anche più, l’ignobile nipote
Nel turpe brago immergesi del vizio,
A segno tal che dalla Reggia anch’essa
A bandirla è costretto.
O Cesare? - Tu stesso, ora, implacato
Farai diserta adunque la tua Sede
D’ogni stretto parente? Oh, non già queste
Vite Tu plori sciagurate e inique
Ma quelle vite d’ogni pregio ornate
Ch’Atropo stessa spegne, Tu rimpiangi
E ognor d’amare lagrime le irrori.
O sventurato, quante morti intorno,
Ahimè, ti vedi in poco tempo! cari
Esseri amati il cui valor sovrano
E la cui fede rigida prostrato
Avean de l’Urbe i perfidi nemici:
Il tuo figliastro, il genero e i gagliardi
Nepoti, a cui potevi dell’Impero
Il carico affidar nel triste giorno
Che al sonno eterno avessi chiusi i lumi.
Quel sì saggio Ministro, che, adunando
D’ogni parte gli ingegni illuminati
Da un Nume, féan sì illustri e trono e Reggia
Con sì raro fulgor di Poesia?
Ahi! Mecenate pur se n’è già andato….
A guisa d’ardua quercia, che sublime
A l’aure frondeggiando dai rupestri
Balzi disfida il battagliar dei venti
E le ratte procelle, se da l’ala
Ignea del fulmin troppo spesso è tocca,
Vien spoglia tutta di sue verdi fronde
E, quasi ignudo tronco rimanendo,
Fa stupire il viator che la contempla
E in rammentar qual’era, in cor predice
Il di lei non lontano ultimo fato,
Augusto pur, così, di tanti amici
Or privo, mentre cerca trepidando
Se ancor rimanga vivo alcun germoglio
Dal qual, dopo di lui, risorger possa
L’inclita STIRPE GIULIA con certezza,
E il regno mantenere or or con tanta
Destrezza eretto e sente, ahimè! la vita
Andarsene così tra lutti e pianti,
Eccoti un novo fulmin per cui teme
Nel suo turbato spirto, che non solo
Crolli il Casato, ma lo Impero stesso.
Allor che la feral nuova all’orecchio
Gli giunge, Egli di credervi ricusa
E impallidisce di stupor dubbioso;
Ma poi già tosto ad infuriar comincia
E a correr qua e colà per l’ampia Reggia
E, quasi pazzo, a dar persin di capo
Contro i muri ululando: “O Varo, o Varo,
“Rendi le mie Legion, le mie Coorti!”
E niuno vuol vedere e sin la luce
Fugge e rifiuta i cibi; ormai l’avresti
Dello già in preda a tutte insiem le Erinni.
Tua sagacia dov’è? Tronca gli indugi.
Piuttosto; orsù, rifà le tue falangi!
Se l’astuzia e l’inganno anco una volta
Riuscîro ad Arminio e l’aver franta
L’amistà di alleato lo rallegra,
Non aderga le corna…. Andrà non molto
Ch’egli, non già aggredito a tradimento,
Ma in campo aperto (come pugnar usa
Impavido il Quirite!), tra l’eccidio
Di tutti i suoi, trovar potrà, a gran stento
Un difficile scampo, del suo sangue
Tingendosi con arte astuta il volto.
O mal proposto a le Germane genti
Indigete Campion, poichè la prima
E più nobil virtù d’un popol grande
È l’incorrotta lealtà! Ma forse
Da saggia anche oggi agisci tu, o Germania,
Che a ritroso degli êvi procedendo
Tuttor preponi a Cristo il truce Odino?
Forse non scinderai così gli spirti
Che son concordi e infirmerai tue forze
Davver sì generose? Oh, guarda, adunque,
Guarda, se hai senno, a quest’Italia nostra!
Poi che strinse con Pietro un mutuo patto
Di sincera Alleanza, oh! a quali eccelse
Mete non giunse invidiata e grande?
Or chi può mai negar che tu per Arte
E per Scienza ed ingegno sia valente?
Ma troppo tu presumi ed erri illusa
Quando propor ti vuoi Maestra al mondo
D’ogni Progresso e Civiltà. Sol gloria
Dell’Urbe è questa, è solo privilegio
Di Roma, che fu eletta a origin vera
D’ogn’altra Civiltà.
Fu la culla dell’Arti e del Sapere;
Ma non potendo poi, perchè discorde,
Questi gran beni divulgare appieno,
Quel Dio che il Tutto in suo poter governa
A Roma con ragion fidava il vanto,
E il grande onor di spargere dovunque
I lumi de la greca Sapienza.
Nè Roma - come ben l’attestan gli êvi -
Roma del mondo tutto ormai Signora,
Venne già meno al nobile mandato
Ma ne fu sempre la fedel ministra.
Anche allorquando i Barbari, (qual gonfio
E rapido torrente, che, abbattuti
Gli argini - cosa orribile a vedersi -
Irrompe vorticoso e ovunque allaga
Valli e pianure) invasero i confini
De l’Imper non vegliati e tutte cose
In vasta, irreparabile rovina
Pareano aver sepolto, e aver travolte
In un turbin di tenebre le genti,
Quella mistica Lampa che giaceva
Accortamente e solo a tempo ascosa,
Roma la trasse fuor novellamente
Da la luce di Cristo ora accresciuta
E, strana meraviglia! Quelle genti
Che pria di stragi solo eran bramose
Si ammansan tosto e, mentre pria ribelli
Disdegnavan le leggi, or docilmente
Il dritto accolgon da coloro, ai quali
Poteano imporlo esse medesme. Tanto
Valean già presso tutti il nome e l’alta
Autorità di Roma!
Di qui, Cesare, vanne! I gravi incharchi
Dai Fati a Te commessi ed or col senno
O colla man compiuti, attestan chiaro
Come níun uomo, forse, nel gran dramma
De la vita giammi compì sua parte
Meglio di Te. Gloriosi fondatore
Del grande Imper, ma amante della pace.
Ai ferali trofei del crudo Marte,
Come fulcro e salvezza de lo Stato,
Sempre i tranquilli doni e le conquiste
Serene di Minerva hai preferito;
E la pace largita a l’Urbe e a l’Orbe
Da te, già vecchio, a la Cesarea Stirpe
Degli avi il regno assicurava, e Roma
Quasi d’aureola celestial cingeva
Che pei secoli tutti a’suoi fastigi
Il culto attirerà dei ver sapienti.
Deh, non t’incresca adunque il dipartirti
Da la terra e sparir da l’ampia scena
Dopo cotanti plausi.
Volger degli anni verrà tempo (e fia,
Perchè tacerlo? quella fia per noi
L’Età del Ferro sì nefasta e ingrata)
In cui la tua figura andrà svanendo
E gli Itali degenerei in oblio
Lasceranno cader di Roma il nome,
E l’Arti che Vergilio avea prescritto.
Ma quando scosso alfin l’ignominioso
Incredibil torpor, quest’egra Italia
Risorgerà ben sana, rammentando
Di quali eroiche gesta e di qual sangue
Sia dessa erede, apertamente allora
Verrà i diritti suoi rivendicando
E, intenta a favorir perpetua pace
Guerra a la Guerra! intimerà, se ad essa
Si renda ciò che impon la pura e schietta
Giustizia e l’equità. Se no, ben conscia
Del maschio ardire e del valor dei padri,
O suader tenterà con ferme e sagge
Parole amiche i loschi oppositori,
Oppur minaccerà con l’arme in pugno
Di prendersi alla fin ciò ch’essa sente
Esser suo. Potrà permetter essa
Che, dopo aver strappato vittoriosa
A l’imminente e certa lor ruina
I perfidi Alleati, questi infine
Tutto per sè si prendano il bottino
Ed essa che soffrìa sì immani stragi
Ed immani dispendi, ne ritorni
Con le man vuote e lorde sol di sangue?
Ed equità mirabil di Alleati! -
Fidando nel valor de le sue schiere,
E astretta da l’esigue sue risorse,
Essa cercasse il suo compenso, e sorti
E sedi a’figli suoi più convenienti….
Il territorio suo, si sa, è ristretto
E miser tanto che a nutrir non basta,
Anco se con solerzia coltivato,
I troppo numerosi suoi coloni;
L’Italia inoltre, come un dì, ha tuttora
La nobil ambizione e insieme l’antica
Arte di prosciugar putri paludi,
E di cangiar diserte piagge in ricchi
Maggesi ameni, e spandere per l’orbe
Di nostra Civiltà l’almo splendore.
E perchè dunque opporsi irosamente
A ch’essa rechi questa diva luce
Fra popoli sepolti ne la notte
Di barbara ignoranza e di ferocia?
Ferire e ancor serbando intatto e immune
Il vostro Imper, la forte Itala Gente
Poteva e, liberal, Roma voleva
Le antiche cancellar vostre brutture,
E infranger l’efferato inuman giogo
Di vostra schiavitù. Fidando invece
Ne l’arti oblique d’insinceri amici
Che miran solo ai danni dell’Italia,
E insieme, occultamente, al proprio lucro
Non certo all’util vostro, ahimè! in un fiume
D’atro sangue travolti ora piangete
Lacrime amare!
Da noi siffatti Amici che già pingui
D’ogni util bene, pur con ogni sforzo
D’arricchir sempre più vanno tentando,
E da astioso livor dentro corrosi
Con losca frode e perfida violenza
Brigan perchè i lor soci in nulla mai
Abbiano a progredir, sdegnando pure
Di riconoscer quei servigi immensi
Che han ricevuto. Ingrati, o troppo ingrati!
Color che coll’aiuto dell’Italia
Si son di tante terre impadroniti
Color che riconoscono da Roma
(E ne fan chiara prova i documenti)
De la lor Civiltà l’origin prima,
Perchè a sè stessa provveder non possa
E procacciarsi quanto le abbisogna,
Ora con turpe assedio stringon essi
Quella che lor fu Madre, onde vedere
Se possan issuaderla, o con la Fame
Piegarla almen.
Bentosto cadrà invan; anzi, oh prodigio
Memorando davvero agli êvi tutti!
La violenza, i suprusi e l’onte inferte
Da l’”Intesa” a l’Italia (minacciando
Di peggio con sue navi) anzichè scotere
Per tema i cittadini, ad essi accrescono
Anzi il coraggio a proseguire intrepidi
Ciò che intrapreser con fiducia unanime.
Chi non dovrà ammirar tanta concordia
Di popolo? Davver che, dopo Canne,
Roma non vide più simil prodigio
Di patrio amor! E chi, fra tante angustie,
A la terra natal non reca aita,
Conforme al suo poter? Ecco, tu vedi
Uomini d’ogni ceto aprir gli scrigni
Pronti ad offrir quanto posseggon d’oro
E d’argento, perchè la Patria in arme
Compia al più presto l’ardua impresa assunta!
E che? Ad accrescer lo stupor tu scorgi
Madri, sorelle e spose anch’esse intente
Con nobil gara a offrire lor monili
E sin quell’aureo segno che sacrava
Il vincolo e l’amor matrimoniale!
Vien superando unanime e sereno
Tante violenze e danni e rie minaccie,
non sarà degno che gli arrida in breve
Secura la vittoria e alfin raggiunga
De’tanti sacrifici il giusto premio?
Popolo apprese a superar tai prove
E a compier gesta degne dei Romani,
Sì che in sol cinque pugne ed entro il breve
Giro di sette lune, con felice
Splendido onor de l’armi, sottomise
D’Etiopia il vasto Imper; quel FATAL GENIO
Che fonder seppe gli animi di tutti
In un animo sol per cui cotanto
La potenza si accrebbe e lo splendore
Del patrio suol; quel Grande che gli stessi
Estrani appellan DUCE….. e che in quest’ora,
Mentre altre genti ognor da rie discordie
Son dilaniate, col prezioso dono
D’una secura pace bea l’Italia,
Non lo diremo PADRE DE LA PATRIA;
E verace SALVEZZA DE LO STATO?
Di volontà potente e di saggezza
Che Roma e Tu ci avete pôrto un giorno,
Dopo ben venti secoli, i Nepoti
Non sol li appreser grati e n’han ricordo,
Ma vengono emulandoli. Gioisci,
Dico; or già vedi l'aquile romane,
L’ali spiegare intrepide per l’Orbe,
E scorgi insiem già fissi i fondamenti
D’un novo Impero Italico che niuna
Umana possa, propiziante Iddio,
Divellere o annientar saprà giammai
Fin quando il RE SOLDATO e la SABAUDA
CASA, del Dritto e del Dover da tanti
Secoli attenta vindice severa,
L’Itala gioventù a quell’invitta
Audacia educherà che, già tremenda
A tutti, saprà vincere anche il Fato.
Critical Notes
-
1) averruncat, originally avverruncat. Corrected by Stephen van Beek.